Sonnolenze

Ci addentriamo attraverso il giardino diretti alla sala da pranzo. Grigi, muti, silenti e imbacuccati. Neppure un fiato o uno sguardo. Ciondoliamo come bambolotti panciuti e obesi a cui è impossibile di volta in volta scegliere quale dei due piedi appoggiare a terra. Scuri e indolenti, lenti, attraversiamo il cortile, irraggiato a rasoterra dai bassi raggi solari giallo paglierino pallido e dorato, nell'aria fresca, ma al contempo già afosa, di questo precoce martedì di primavera. Getti di umidità effondono odorosi e potenti dal suolo verso l'alta atmosfera, spazzata via dai fortissimi venti delle correnti tubolari che, ad alta quota, avvolgono la Terra come un guizzante covo di Anaconde.

Il pruno è già fiorito e sfiorito da tre settimane. La sua bianca fioritura ricca di forme, pollini, succhi e profumi, voli d'insetti stentati e intontiti, è un ricordo ormai lontano. Di quella fioritura, che sapeva di matrimonio fra cielo, terra, oceano e vita, di quella esplosione celeste di vita scoccata precisa il giorno dell'equinozio, non rimane a ricordo neppure il letto di petali a terra, disperso all'improvviso dal forte vento caldo e secco, foriero d'incendi, dei giorni scorsi. Quella deflagrante fioritura cede il passo una esplosione di foglioline e di germogli, di giovani virgulti color smeraldo, che ghiotti timidi, si tendono e si stendono nell'aria mossa, a nutrirsi dei raggi luminosi all'incedere sempre più alto del sole nella volta del cielo.

Ora noi poveri pazzi di questa comunità ad alta protezione, ci siamo dispersi alla massima distanza possibile l'uno dall'altro nell'area giorno della struttura ospedaliera che ci vede reclusi e piantonati. Curvi e assenti, anche a noi stessi, non ci guardiamo neppure in volto, vergognosi forse anche fra di noi di scoprirci così profondamente isolati, gli ultimi reietti dell'ultima feccia che il secondo millennio distilla e consegna scandalizzato al terzo. Tra di noi, non c'è sorriso ne' stretta di mano o altra amichevole interazione umana; solo sguardi obliqui e sospettosi, grugniti vani e vacui, sguaiati come le nostre esistenze di animali.

Mi sento come una monade svanita e inesistente di un mondo inesistente e inimmaginato, un'ombra furtiva e fugace d'una non esistenza. Qualche tempo fa, non molto tempo fa, ero una persona; avevo un lavoro, delle relazioni, dei desideri e delle aspettative, delle speranze e anche dei plausi e dei riconoscimenti. Mi venivano poste delle domande. Avevo delle strette di mano e dei sorrisi, delle carezze. Anche questo, come la fioritura del pruno, è ormai un ricordo molto lontano.

Ora che sono stato giudicato responsabile di un grave reato, sentenziato incapace di intendere e di volere, socialmente pericoloso e segregato in un angolo remoto, nascosto e introvabile della megalopoli a cui appartengo, mi sento un numero, un codice a barre. Un grumo dolente di carne elettrificata dalle iniezioni intramuscolo di farmaci psicotropi. Un numero in codice di una cartella clinica fitta di riferimenti noscocomiali colti e dotti, sapienti, ma inequivocabilmente associata a altrettanto fitti e stracolmi fascicoli della questura, che provano e compravano le mie reiterate e incorreggibile condotte criminose e amorali, inadatte a ogni reinserimento nella vita sociale dell'Europa moderna, sviluppata, civile e produttiva. Eppure, fino a solo sei mesi fa, anche io svolgevo la mia parte in quell'Europa; credendoci ancora un poco. Ora, non più.